L’economia dell’attenzione e il futuro del content marketing

L’attenzione umana mai come ora è diventata una risorsa scarsa, a tal punto che oggi si parla di economia dell’attenzione. Pensiamoci: ogni giorno social media, tv, radio, giornali ci sparano addosso una quantità di informazioni inimmaginabile sino a vent’anni fa. Tutte queste fonti battagliano per un minuto del nostro sguardo. Uno sguardo che, però, sarà inevitabilmente superficiale e spietato nel surfare in questo overload informativo.

Laddove c’è un’inflazione informativa la nostra capacità di acquisire ed interpretare nuovi input si riduce, così come la nostra capacità di attenzione sul singolo contenuto.

Qualche settimana fa guardavo una vignetta di Tom Fishburn che ironizzava proprio su questo overload in ambito content marketing. Stiamo effettivamente producendo più contenuti di quelli che la nostra audience di riferimento possa consumare. E siamo caduti anche noi nel paradosso della vignetta, cioè scriverci sopra un ulteriore contenuto.

Una vignetta in cui due colleghi parlano di overload di content marketing
Overload di content marketing.

L’economia dell’attenzione e i contenuti liquidi

La sfida che ci pone un’epoca in cui tutti potenzialmente siamo delle emittenti è quella di ridefinire i termini dell’economia dell’attenzione. Si tratta di una ricerca teorica, nata già diversi decenni fa, quando era già evidente che una moltiplicazione dei messaggi si sarebbe accompagnata inevitabilmente ad una diminuzione dell’attenzione.

Già nel 1971, Herbert Simon, premio Nobel per l’economia, scriveva: «L’informazione consuma attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare».

Una scena del film Aprile di Nanni Moretti in cui è circondato da giornali
Una scena del film Aprile di Nanni Moretti

Nel frattempo, però, dagli anni settanta ad oggi sono arrivate delle novità che hanno fatto saltare la direzione univoca che corre tra chi offre informazione e chi la riceve.

Adesso, parafrasando il sociologo Zygmunt Bauman, ci troviamo di fronte ad un contenuto liquido: un’unità informativa che oggi viaggia fra individui ad ogni livello, dove tutti possono appartenere al contempo alle schiere di chi offre informazione, chi la riceve, chi cerca attenzione, chi la concede, chi la vuole sfruttare per deviarla su altri percorsi mentali allo scopo di pubblicizzare prodotti e marchi di ogni genere. I contenuti attraversano i media e hanno sempre più una natura conversazionale.

La velocità con cui avvengono questi scambi e le proporzioni sempre più vaste che ha assunto il fenomeno ci spingono a vivere all’interno di una bolla in cui il rumore informativo di fondo è la prassi ed è anche una barriera all’accesso di contenuti validi.

Da qui arriviamo alla tesi che in un periodo di inflazione di informazioni, l’attenzione non è più soltanto scarsa ma diventa rarissima e costosissima. Possiamo dire che l’economia dell’attenzione tende a non essere incasellabile nel terreno tradizionale degli scambi monetari, quanto piuttosto nelle più sottili dimensioni dell’economia del gratuito, dei beni relazionali e culturali.

Fateci caso: l’attenzione che dedichiamo agli amici è incommensurabilmente più elevata di quella che riserviamo ad altre e più impersonali fonti di messaggi.

E fate caso ad un’altra evidenza: tempo e attenzione stanno già diventando una moneta di scambio, infatti ogni giorno ingenti quantità di contenuti vengono elargiti gratuitamente in cambio di tempo e attenzione. Chris Anderson, giornalista e saggista statunitense, ha teorizzato che: “il denaro smetterà di essere il segnale principale nel mercato e al suo posto sorgeranno due fattori monetari: l’economia dell’attenzione e l’economia della reputazione”.

L’economia della disattenzione

Ma qual è l’altra faccia della medaglia? Quando il rumore informativo di fondo diventa una condizione permanente, solo i contenuti più leggeri o semplificati hanno la possibilità di ricevere più attenzione e più condivisibilità (pensate ai meme, agli articoli della colonna destra de “La Repubblica”, ai video virali). Ecco poste le basi di una sorta di deliberata economia della disattenzione.

Una vignetta che illustra come un bambino è distratto dal cellulare e lascia un libro. L'economia dell'attenzione è messa a dura prova dalle nuove tecnologie
Vignetta di Cinismo Illustrado

Daniel Kahneman insegnava come i comportamenti sono molto più spesso dettati dall’intuizione che dal ragionamento. E poiché il ragionamento richiede molta più attenzione dell’intuizione, se ne può trarre la conseguenza che la disattenzione può essere una condizione ideale per favorire certi comportamenti impulsivi.

Ne deriva che contenuti leggeri e ripetuti inducano a spingere dal ragionamento all’intuizione, così che il brand o il messaggio si sedimenti come “la prima cosa che viene in mente”.

Non sappiamo quanto poi sia efficace questa economia della disattenzione, quello che sappiamo è che ogni giorno contribuisce ad un impoverimento dell’ecosistema culturale. Pensiamo alla viralità di cui godono le fake news, al progressivo imbarbarimento delle interazioni sui social network, al giornalismo mordi e fuggi che ricorre al click-bait.

Le leggi empiriche dell’attenzione

Da quanto abbiamo osservato in questi ultimi anni possiamo provare a tracciare tre tendenze ricorrenti:

  • all’aumento di offerta di contenuto e di fonti corrisponde proporzionalmente un calo dell’attenzione;
  • più un contenuto riesce a catturare attenzione, più è condiviso;
  • all’aumento di offerta di contenuti corrisponde proporzionalmente un calo medio della sua qualità.

A cui si aggiunge anche questo corollario:

  • più un contenuto fa leva sull’intuizione, più veloce è la sua diffusione;
  • più un contenuto fa leva sul ragionamento, più lenta è la sua propagazione.

Quale sfida si pone al content marketing quando il prezzo dell’attenzione è alle stelle e la strategia dei più è di puntare sulla semplificazione o banalizzazione?

La lezione dell’industria musicale

Facciamo un esempio tratto dal mercato musicale, uno dei settori che più di tutti è stato investito dall’overload di contenuti, a tal punto da comprimere fatturati e rendere ridicole le vendite di dischi fisici.

Gli autori di musica si sono moltiplicati esponenzialmente rispetto al passato, perché le barriere d’accesso sono state abbattute grazie alle nuove tecnologie. Negli ultimi anni sia i grandi artisti che quelli emergenti sono stati costretti a fare i conti con lo streaming su Spotify e piattaforme analoghe, con compensi molecolari che rasentano la gratuità.

Dei ragazzi scelgono dei vinili da acquistare in un mercato

Di contro la gratuità, invece che costruire un legame conversazionale con il pubblico, ha solo diseducato gli ascoltatori. Un album che un tempo costava fatica in termini di reperimento della copia fisica e attenzione nella fruizione è stato sostituito da una facilità di accesso senza precedenti e una fruizione disattenta e discontinua. Questo ha portato ad un miglioramento qualitativo? Non proprio.

Per vincere l’asta dell’attenzione c’è stato un progressivo appiattimento artistico, al punto che ogni avanguardia rischia di morire ancor prima di nascere. Esistono team di produttori, arrangiatori, case discografiche che permettono agli autori di produrre in serie mucchi di canzoni pop super orecchiabili, ma indistinguibili l’una dall’altra.

Che c’entra tutto questo con il content marketing? Questa vicenda ci offre tre spunti di riflessione. Se tutti comunicano tutto, niente sarà più realmente significativo da comunicare. Se tutti affollano lo stesso medium, pochi potranno ascoltarsi davvero. Se tutti potranno raggiungere una notorietà effimera, nessuno sarà veramente riconoscibile.

Che fare? A questo punto vale la pena fare uno step successivo. Passare dal catturare l’attenzione alla genesi dell’interesse. Non è qualcosa che si fa sacrificando la qualità per la quantità, e neanche la quantità per la qualità. Si fa creando spesso contenuti che catturino l’attenzione ma senza cedere troppo spazio alla banalizzazione, si fa diversificando i percorsi che portano alla soluzione di un problema. Si fa porgendo spunti per un ragionamento e per la risposta ad un bisogno: solo così l’attenzione si traduce in interesse e consente di distinguersi nel mare magnum dei competitor. E se per strada perdi qualche potenziale cliente, perché non ha il tempo e la voglia di capire i contenuti che stai elargendo gratuitamente, passa oltre. Vuol dire che non era il tuo cliente ideale.

Abbiamo un bivio davanti a noi, cioè spingere le persone su un iper-presente traboccante di informazioni insensate, oppure liberarle elaborando una prospettiva che permetta loro, in prima persona, di interrogarsi e di sviluppare una consapevolezza. L’investimento in conoscenza, come diceva Benjamin Franklin, è quello con più alto tasso di interesse.

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